Il caffè, patrimonio dell’Umanità

Pubblicato il 08/06/21
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Tazza di caffè con chicchi di caffè

TRA RITO, TRADIZIONE E CULTURA, L’ESPRESSO ITALIANO AMBISCE AL PRESTIGIOSO RICONOSCIMENTO UNESCO.

di Luciana Antonini


“Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina di caffè presa tranquillamente qui, fuori…. con un simpatico dirimpettaio”, dice Eduardo de Filippo in Questi fantasmi (1945).Nel nostro Paese il caffè è una vera e propria arte, una tradizione, un’abitudine radicata, un gesto conviviale, una questione antropologica e culturale.

Dal 31 marzo il Rito del caffè espresso italiano tradizionale, come prima candidatura, e la Cultura del caffè napoletano, come seconda, sono stati sottoposti dal Ministero delle Politiche agricole al Comitato intergovernativo Unesco. Obiettivo: far entrare il nostro caffè nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. In attesa della valutazione, le due proposte sono già state inserite nell’Inventario dei prodotti agroalimentari italiani (INPAI), che dal 2017 raccoglie e documenta gli elementi culturali legati alle tradizioni enogastronomiche tipiche del nostro Paese.

Ad oggi, gli elementi italiani che fanno parte del Patrimonio Unesco sono: l’Opera dei Pupi siciliani, il

"Nel nostro Paese il caffè è una vera e propria arte, una tradizione, un’abitudine radicata, un gesto conviviale, una questione antropologica e culturale"

Canto a tenore sardo, il Saper fare liutaio di Cremona, la Dieta mediterranea, le Feste delle Grandi macchine a Spalla, la vite ad alberello di Pantelleria, la Falconeria, l’Arte dei Pizzaioli Napoletani e l’Arte dei muretti a secco. Si tratta di  arti,  abitudini,  eventi  festivi,  manufatti e pratiche agricole tradizionali che costituiscono l’espressione   “vivente”   dell’identità   delle   comunità e delle popolazioni che vi si riconoscono. Proprio come il caffè espresso, un vero e proprio “rito”, sul cui valore sociale e culturale, nessun italiano è disposto a concedere il beneficio del dubbio. Non manca qualche curiosità legata ai suoi inizi, quando papa Clemente VIII, chiamato a pronunciarsi su tabacco e caffè, decise di condannare alla scomunica chiunque fosse stato scoperto a fumare nei luoghi sacri, ma benedisse la bevanda, consumata nei Paesi arabi a partire dal XIV secolo, ritenuta qualcosa di troppo buono per non essere bevuto anche dai cristiani. Da allora, il caffè cominciò a diffondersi in tutto il territorio italiano, fino alla metà del 1700, quando con la nascita delle Botteghe del Caffè a Venezia – la prima fu il Caffè Florian -, la bevanda cominciò a diventare un’abitudine sociale consolidata.

Il caffè espresso come lo conosciamo oggi si afferma a partire dal secondo dopoguerra. Al nord è più lungo, al sud più corto e servito in tazza bollente, a Roma nel bicchierino di vetro, ma ovunque e per tutti il “prendersi un caffè” rappresenta un appuntamento quotidiano irrinunciabile.

Per non parlare dell’usanza di quello sospeso, che lo scrittore Luciano De Crescenzo racconta così: “Quando qualcuno è felice a Napoli, paga due caffè: uno per se stesso, ed un altro per qualcun altro, è come offrire un caffè al resto del mondo”. Un’usanza gentile e solidale che è andata diffondendosi in tutta Italia.

Ma un caffè espresso per potersi dire davvero “tradizionale italiano” deve attenersi ad un preciso Disciplinare elaborato dal Consorzio di tutela del caffè espresso, che rappresenta tutta la filiera degli operatori del settore, sotto la presidenza di Giorgio Caballini, Presidente e Amministratore Delegato della Dersut Caffè.

Cinque i requisiti individuati: la macinatura (da fare al momento, con una grammatura tra i 7 e i 9 grammi); l’erogazione (in un tempo compreso tra i 20 e i 27 secondi); l’aroma (gradevole e intenso); il servizio (tra i 13 e i 26 grammi di bevanda ad una temperatura tra i 90 e i 96°); e, infine, la crema (uniforme e persistente per almeno 120 secondi dal momento dell’erogazione). Ah che bell’ò cafè, come in Italia ’o sanno fa’, potremmo dire riprendendo una famosa canzone di Fabrizio De André.