“N’ toco de fugaza, ‘na feta de fainà”

Pubblicato il 26/04/21
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Frittata in padella

UNA VOLTA ERA IL PASTO, FRUGALE E VELOCE, DI MANOVALI E CARRETTIERI. OGGI È RICERCATA DA BUONGUSTAI E FOODTROTTER

di Gianluca De Feo


Si diceva della farinata che era cibo per la povera gente, che andava di fretta e che mangiava di fretta, operai, manovali, carrettieri, artigiani. “N’ toco de fugaza, ‘na feta de fainà”. Adesso la apprezzano quelli che vanno alla scoperta delle cose buone di una volta.Alla Spezia come a Genova come a Imperia come in tutta la Liguria e non solo. La Pia, ad esempio, proprio alla Spezia detta la Centenaria, uno dei locali più antichi della città, in via Magenta, un vicoletto della centralissima Via del Prione,specializzata dal 1887 proprio in farinata. Un luogo diventato leggendario, cresciuto con la città, che ha contribuito a definirne l’identità e il carattere.

Cosa distingue il cibo degli uomini da quello degli altri animali? Si chiedeva Massimo Montanari in Il cibo come cultura. La risposta è semplice, la capacità di usare un forno a legna e la cultura del fuoco che ha trasformato l’alimentazione in cucina. Ecco perché la farinata non è solo farinata ma un modo di essere e di definire le proprie origini e guardare al mondo che cambia con un misto di anarchia e tradizione. E poi ci vuole la farina, quella buona, fatta con i ceci giusti, italiani, ormai in via di estinzione, quelli con molta fibra e poca acqua. L’unico mulino ancora in grado di garantire la qualità è sempre in Liguria, a Pegli.

pepe, ma poco. E poi ci sono le “sciamadde” a Genova, che devono il loro nome alla fiammata del forno a legna e per trovarle bisogna perdersi da veri food trotter nel centro storico, tra i carrugi di Sottoripa. E passeggiando ecco la friggitoria Carena a Sottoripa. Qui si racconta l’immancabile storia ormai leggendaria della nascita di quello che la tradizione definisce l’oro di Pisa, fatta risalire alla battaglia della Meloria, con le navi genovesi di ritorno vittoriose sorprese da una tempesta con le provviste rimaste nella stiva che si mescolarono, la farina con l’olio e l’acqua.

Per non buttare via quell’amalgama ebbero l’idea di offrirla ai prigionieri pisani che prima di mangiarla decisero di scaldarla al sole. Da qui anche la rivalità sull’origine e la paternità del piatto tra liguri e toscani.